Articoli su Giovanni Papini

2014


Daniele Fulvi

La morale come esigenza esistenziale nei pensieri di Giuseppe Rensi e Giovanni Papini

Pubblicato in: Bollettino della Società Filosofica Italiana, nuova serie n. 213, pp. 27-45.
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Data: settembre - dicembre 2014



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1. Due pensatori “dinamici”: qualche cenno generale sui pensieri di Rensi e Papini.
   Giuseppe Rensi e Giovanni Papini possono senz’altro venir presentati come due pensatori “dinamici”: in entrambi, infatti, l’attività speculativa risulta caratterizzata da una irregolarità di pensiero e da repentini mutamenti di orizzonte filosofico. Rensi, ad esempio, attraversa numerose stagioni, ognuna delle quali viene da lui vissuta con sincero entusiasmo e profondo coinvolgimento intellettuale: in gioventù è un convinto idealista ed afferma che l’universo è guidato da una forza trascendentale divina che lo spinge verso la perfezione razionale e morale 1; successivamente aderisce allo scetticismo, rinnegando le sue idee giovanili e sostenendo che non esistono né una ragione universalmente valida cui fare affidamento né una verità assoluta ed indipendente dal giudizio soggettivo dell’uomo, facendo della realtà un caotico ed irrazionale insieme di eventi 2. Ritenendo perciò la realtà essenzialmente irrazionale, Rensi afferma (rovesciando il celebre detto hegeliano) che «ciò che è reale è irrazionale; ciò che è razionale è irreale» 3, volendo con ciò significare che le strutture ultime della realtà sono del tutto difformi e perciò inaccessibili alla ragione umana.


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   Dal canto suo, Papini in gioventù si caratterizza come un deciso avversario della filosofia accademica, considerata come una vuota forma di erudizione che si è estraniata dal mondo reale e che non si cura più di ricercare la verità fossilizzandosi su sistemi di idee vecchi ed obsoleti 4. Infatti l’uomo necessita, più che di un sapere ideale, di un sapere pratico, teso cioè ad accrescere i suoi strumenti per modificare e dominare la realtà 5; tali idee portano Papini ad aderire al pragmatismo, inteso come una metateoria dell’azione, ossia come teoria pratica che funga da guida per l’intero sistema dell’umano sapere ed agire, tesa cioè non alla mera contemplazione teorica del mondo, bensì alla sua trasformazione pratica 6. Successivamente egli aderisce (seppur per un periodo limitato) al futurismo, sostenendo che l’auspicata trasformazione culturale e materiale del mondo rappresenta un atto rivoluzionario e coraggioso consistente nel rifiuto di ogni convenzione risalente al passato ed alla fondazione di nuovi modi di pensare ed agire 7.
   Anche da un punto di vista più strettamente teologico e religioso i due pensieri sono caratterizzati da una forte instabilità. Nel caso di Rensi si ha il netto passaggio dalla credenza alla miscredenza: dapprima Dio viene affermato come Ragione Assoluta e principio dell’universo che racchiude in sé tanto il Bene quanto il Male 8,
per poi successivamente venir negato e considerato alla stregua del non-Essere, in quanto non può esistere alcun Essere che cada al di fuori della sfera percettiva e dello spazio-tempo 9. L’ateismo rensiano, tuttavia, racchiude in sé degli elementi riconducibili al misticismo, come l’esistenza di un Tutto di cui l’io non è che una minima parte e con cui l’io deve ricongiungersi e di un principio irrazionale del mondo (θεῖον) che si fa garante del Bene e che rende inaccessibile la comprensione della totalità del reale ad un tipo di conoscenza meramente logico-razionale. In altre parole, l’ateismo di Rensi consiste nell’accettazione della piccolezza dell’uomo di fronte alla realtà, della matrice essenzialmente assurda ed irrazionale di quest’ultima e dell’impossibilità di sovvertire tale ordine naturale o di pensare una divinità che possa sovvertirlo o stabilirne uno nuovo 10.
   In Papini, invece, si verifica il passaggio opposto, cioè dalla miscredenza alla credenza: da giovane egli si definisce ateo ed anticlericale, anche se il suo ateismo è dovuto più ad un atteggiamento provocatorio che ad una reale


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miscredenza ed il suo anticlericalismo non è altro che un critico distacco nei confronti dell’ipocrisia di quei credenti i quali si comportano contravvenendo ai precetti morali che essi stessi predicano 11. In età matura, poi, avviene la conversione al cattolicesimo: a questo punto Papini si scaglia contro gli atei, i quali non si rendono conto che, nel tentativo di affermare l’inesistenza di Dio, finiscono invece con l’affermarne l’esistenza, in quanto è proprio perché essi avvertono tale esistenza che cercano di negarla 12. Quindi, mentre in gioventù la figura di Dio viene da Papini considerata come un modello ideale cui l’uomo deve aspirare per raggiungere la perfezione, nella maturità egli riconosce Dio come Essere supremo, creatore e causa di tutte le cose.
   Sia Rensi sia Papini, dunque, ritengono la ricerca della verità ben più importante della coerenza sistematica, ragion per cui la predisposizione al cambiamento e il duro scontro con la realtà sono le uniche vie per pervenire ad una forma accettabile di conoscenza. In entrambi i casi, di conseguenza, la speculazione filosofica non si stabilizza in delle categorie di pensiero sistematiche, bensì si plasma e si modifica a seconda del suo rapporto con la vita reale. Il pensiero del filosofo, dice Rensi, è in continua evoluzione, e non può essere mai fissato in maniera definitiva in alcun libro, né si può pretendere che si stabilizzi sui risultati raggiunti senza continuare ad interrogarsi ed a proseguire il suo cammino 13. Anche in Papini è presente questo aspetto in difesa della legittimità della dinamicità di pensiero, che deve essere lasciato libero di spaziare e variare non curandosi delle accuse di incoerenza che si possono ricevere 14.
   Questo breve sunto dei pensieri rensiano e papiniano si rende necessario come introduzione per poter poi trattare in maniera più diffusa l’ambito morale di essi, in quanto questo rappresenta (come vedremo meglio in seguito) la parte più importante della produzione filosofica sia di Rensi sia di Papini, dal momento che risulta una presenza pressoché costante nell’intero arco della loro opera. La questione del bene e del male ed il suo rapporto con la vita pratica dell’uomo rappresentano due questioni fondamentali nella filosofia rensiana, mentre Papini è convinto che uno dei compiti principali dello scrittore sia di tipo morale, in quanto questi dev’essere in grado, oltre che di trasmettere efficacemente la conoscenza, di educare il lettore, di sviluppare


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e stimolare il suo intelletto ed il suo spirito.


2. La morale di Rensi.

   2.1. Altruismo disinteressato ed annientamento dell’io
     Rensi è convinto che in ogni sistema filosofico sia implicito un sistema morale e che sia piuttosto diffusa tra i filosofi l’idea che il nucleo della morale consista nel dover fare qualcosa di diverso da ciò che comunemente facciamo. Per questo l’esistenza di una legge morale consiste in una anormalità, in quanto crea nell’uomo un forte conflitto dualistico tra volontà e liceità: ciò che vogliamo fare non è lecito e ciò che è lecito fare non lo vogliamo. Su ciò si basano gli sforzi per giustificare il male ed il dolore, che vengono visti come necessari ai fini di una buona educazione «perché trionfando dell’uno diventiamo migliori, sopportando l’altro ci purifichiamo dal male compiuto» 15. Per Rensi, tuttavia, bisogna non chiedersi cosa fare di fronte a tale dualismo ma scoprire il motivo per cui esso sorge.
   La tesi stoica secondo cui bisogna volere solo ciò che si può avere è scorretta, poiché le passioni, pur essendo fuori dal controllo della nostra volontà,influenzano quest’ultima, che si sforza o di obbedir loro o di contrastarle. Dunque c’è un conflitto vitale che genera infelicità in quanto «la ragione umana è radicalmente incapace di distinguere il bene dal male» 16, dal momento che si può ragionevolmente sia assecondare gli impulsi sensibili sia resistervi: la ragione, cioè, è inaffidabile in quanto muta a seconda del suo rapporto con le passioni e la sfera sensibile. Quindi «l’impossibilità generica di distinguere il bene dal male si determina più specialmente […] come impossibilità di distinguere quale sia tra i vari doveri, che si presentano e si contraddicono, quello che bisogna seguire» 17; ciò implica la relatività del dovere e che «ognuno ha un concetto proprio del sommo bene e quindi del dovere, un concetto che è molto spesso assolutamente incomunicabile ad altri e per gli altri incomprensibile» 18; per cui «la moralità […], in quanto atto pratico e nella sua forma più solida, consiste nel fissarsi in istinto d’una determinata condotta considerata buona» 19.
   Per poter perdurare la morale ha bisogno dell’ignoranza del fatto che altri individui ed altri popoli possano avere una diversa concezione della moralità; ossia «l’allargarsi della conoscenza dissolve la morale» 20, che finché


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vive nell’ignoranza può perdurare identica a sé stessa senza paura di poter cadere in errore. Infatti spesso accade che le proprie concezioni morali non vengano acquisite criticamente ma siano accettate senza prendere in considerazione alternative; per Rensi ciò denota che «la morale è figlia dell’immoralità e per venire al mondo ha bisogno imprescindibile di questa» 21, e cioè che ogni morale, in quanto concezione personale e soggettiva del bene, è immorale se considerata in relazione ad un diverso soggetto.
   Quindi la morale non può essere considerata come una scienza normativa in quanto non determina le azioni umane ma viene da queste determinata. Infatti non è possibile ridurre la morale ad un insieme di norme poiché essa «irrigidisce delle entità concettuali fuori della vita; solo la casuistica è la vita stessa» 22, ossia le azioni hanno senso non in quanto codificate in un trattato di morale ma in quanto facenti parte della vita reale dell’individuo. In altre parole, la morale universalizza casi particolari, che però hanno senso solo come entità materiali particolari e non come concetti generali; perciò essa non può considerarsi come una scienza normativa bensì come «una scienza che investiga uno stato di fatto» 23. Inoltre è sempre la volontà ad originare l’agire umano, anche nel caso in cui si venisse obbligati a fare qualcosa, dal momento che tale forzatura agisce unicamente sulla volontà, distogliendola dal suo intento ed indirizzandola verso qualcos’altro.
   Funzionale alla teoria morale di Rensi è, infine, il concetto di sostanza, che può venir definita in due modi: o come l’essenza di una certa cosa prescindendo dai suoi accidenti o come ciò che esiste senza bisogno di percezione. In entrambi i casi essa indica un sub-stratum, ossia ciò che sta sotto gli accidenti e rende una cosa ciò che essa è senza bisogno di venir percepito (pur essendo suscettibile di percezione). Per Rensi, però, ciò mette in luce una antitesi ineliminabile, e cioè «che le cose non sono se non in dipendenza dallo spirito, e lo spirito, alla sua volta, non è che in dipendenza dalle cose» 24. In altre parole, le cose non sono se non oggetto di conoscenza da parte dello spirito; analogamente, lo spirito, senza il contenuto conoscitivo fornitogli dalle cose, non è.
   In pratica ciò genera un conflitto ineliminabile che sottrae la possibilità di ogni presupposto su cui fondare una scienza morale; infatti «dall’è al si deve, dall’esistenza al valore, non c’è passaggio per via dell’esperienza» 25, quindi, ribadisce ancora Rensi, una morale prescrittiva sarebbe meramente arbitraria e non passibile di universalizzazione. D’altra parte, una morale


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fondata sul concetto di libertà è altrettanto problematica perché non è possibile escludere il fatto che l’uomo sia in balia del caso se non eliminando il suo presupposto fondamentale, ossia la libertà stessa. In conclusione, secondo Rensi «l’etica resta così dominata sin dall’inizio dall’impossibilità della risoluzione dei problemi che contengono e dovrebbero fornirle i dati essenziali su cui basarsi» 26.
   Accanto alla pars destruens del suo pensiero morale, che rifiuta ogni universalità e normatività etica, Rensi pone una pars construens ben precisa: se gli impulsi sensibili entrano in conflitto con la liceità morale, è solo prescindendo da essi che si può pervenire alla virtù. La rinuncia al proprio io empirico, ossia il supremo sacrificio dell’io come mezzo per l’espiazione delle sofferenze, è da considerarsi come la somma virtù che permette di accedere all’originaria unità dell’io con il Tutto (che rende l’uomo una cosa tra le cose in quanto parte di una realtà più ampia che lo trascende). Il distacco dalle proprie passioni, tuttavia, provoca sofferenza nell’uomo, poiché la natura vuole che l’uomo sia schiavo di esse, mentre la perfezione morale si può raggiungere solo liberandosene. Perciò «nobile e meritorio è il dolore che provi per non riuscire a liberarti come vorresti dalle tue passioni e ad elevarti alla perfezione morale» 27 in quanto «ogni passione, buona o cattiva, se appena si comincia a contentarla, finisce col diventare una valanga divoratrice» 28.
   In tal modo l’agire umano diviene disinteressato e spassionato e sfocia in un altruismo che consiste nel trovare appagamento nella felicità altrui, pervenendo ad una forma di piacere diversa rispetto a quello meramente personale. La massima virtù, dunque, consiste nell’annullamento del proprio io, ponendo lo scopo dell’esistenza fuori di sé, rinunciando alle proprie naturali pulsioni sensibili e trovando appagamento solo nell’altrui benessere. Pertanto è opportuno «agire senza riporre alcuna speranza nel frutto dell’azione, e rinunciando ad ogni attaccamento ai risultati di essa» 29, anziché comportarsi egoisticamente con la costante speranza in una ricompensa ultraterrena. Questo, secondo Rensi, è il paradosso costante dell’esistenza umana, e cioè che la sofferenza, la privazione ed il male siano l’unica forma per pervenire al benessere ed al Bene.
   Proprio in tale paradosso sta il senso morale dell’esistenza stessa: l’uomo non può pensarsi se non come parte del Tutto, e proprio in quanto è parte del Tutto il suo agire, se egoistico ed orientato al soddisfacimento dei suoi bisogni personali, genera in lui sofferenza, mentre lo porta alla quiete ed al benessere se altruista e disinteressato rispetto ai propri scopi materiali. Non


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esiste altro modo per raggiungere la felicità all’infuori dell’annullamento del proprio io e dell’altruismo spassionato; ossia, non nell’Essere e nel divenire, ma nel Nulla e nella quiete è il benessere dell’uomo. Del resto Dio non è Creatore (Essere) ma Redentore (Nulla), poiché «Dio non lo puoi pensare che come non spaziale […], come non posto davanti a ciò che, soltanto, per noi è Essere […], a tutto ciò che noi possiamo pensare come realtà. Ossia Dio non lo puoi pensare che come Non-Essere, Nulla» 30. Propriamente in questo consiste il theion (θεῖον) di cui parla Rensi, e cioè nel Nulla della situazione divina e nella quiete assoluta la quale solamente può essere fonte del Bene.
   Infine un’ultima ma importante osservazione, che meriterebbe una trattazione ben più ampia, riguarda il rapporto del pensiero rensiano con le Upanisad e il buddismo (egli infatti è un profondo ed appassionato conoscitore del pensiero orientale). Per quanto riguarda le prime, Rensi ne apprezza particolarmente il concetto di brahman, il quale indica la mistica unità del Tutto che ordina il cosmo; «questo eterno albero di asvattha [l’albero della vita] ha in alto la sua radice e in basso i suoi rami: esso è la vera luce, esso è il brahman […]. Tutti i mondi sono in esso radicati, niuno lo supera» 31. Detto altrimenti, «dall’unico brahman si effonde il molteplice universo. Ma l’albero del brahman, a differenza delle piante mortali, è capovolto; ha in alto le radici e in basso i rami, cioè le sue multiformi manifestazioni» 32. Da ciò deriva la rinuncia alle proprie pulsioni sensibili e dalle sofferenze che ne derivano; infatti «il saggio, avendo compreso la diversa natura dei sensi e quello che è il sorgere e il tramontare di essi separatamente originati, si affranca dal dolore» 33. Come abbiamo visto, questi aspetti sono fortemente presenti nella filosofia rensiana, che ne individua la somiglianza con il cristianesimo ed il francescanesimo 34.
   Fortemente radicata nel pensiero di Rensi è anche la presenza del buddismo, secondo cui bisogna liberarsi dalle passioni perché ingannevoli e vane, mentre l’essenza della vita sta nel raggiungere il nirvâna, «la più alta delle beatitudini» 35: cioè attraverso l’ascetismo bisogna abbandonare il mondo materiale e purificare il pensiero dalle influenze sensibili. Il vero saggio è colui che sa distinguere tra il vero piacere (nirvâna) e il piacere materiale ed effimero, scegliendo il primo e rinunciando alle sofferenze ed illusioni portate dal secondo; infatti per chi sa vivere «senza più dolore, libero per


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ogni verso, sciolto da ogni legame, non v’è più sofferenza» 36. Analogamente Rensi crede che ogni singolo uomo sia una piccola parte del Tutto, dell’Uno, dell’Assoluto, estesa in un piccolo e determinato frangente spazio-temporale. Infatti «spazio e tempo sono i mezzi mediante cui l’Uno, quell’Uno la ricerca del quale si può dire costituisca tutta la storia della filosofia, quell’Uno, che è il fondo essenziale delle cose, diventa i più» 37; ossia l’idea di uomo collocata nello spazio diventa tanti uomini e collocata nel tempo diventa tante generazioni di uomini, ma tutti, nella loro essenza ultima, appartengono all’Uno e ne sono una parte costituente.

   2.2. La Morale come pazzia: estetica e morale.
      Rensi rifiuta ogni tipo di razionalismo ed utilitarismo in ambito morale, poiché questa non può in alcun modo venir ridotta alla ricerca di un utile o di uno scopo personale, né può venir praticata dalla sola ragione, in quanto questa tende per sua natura alla ricerca dell’utile. Al contrario, in virtù del suo carattere antirazionalista ed antiutilitarista, la morale autentica, il vero e proprio sentimento morale, non può che essere una pazzia, poiché si contrappone fortemente ed insanabilmente al senso comune ed al comune modo di pensare degli uomini. La pazzia, in tal senso, è una virtù propria del genio, che agisce intuitivamente e disinteressatamente e, come tutte le virtù, non è posseduta da tutti bensì soltanto da pochi eletti; sono pochi, infatti, coloro i quali avvertono quell’impulso irresistibile che li spinge ad agire rompendo le convenzioni e seguendo incondizionatamente e disinteressatamente ciò che gli appare come bene.
   «Rensi afferma che “operari sequitur esse”, che non si può insegnare ad essere morali, perché si è morali o immorali a seconda di che tipo di uomini si è» 38. Infatti «gli uomini agiscono secondo il loro impulso fondamentale. Il generoso è generoso e trova soddisfazione in questo suo modo di essere a cui non potrebbe sottrarsi» 39; in altre parole l’istinto dell’uomo, impostogli dalla sua natura e dal suo modo di essere, è invincibile ed è nettamente più forte dei precetti razionali. Proprio in virtù di questo fatto esso appare come irrazionale, ossia come pazzo, agli occhi degli altri; ciononostante è questo stesso istinto, di cui non si può rendere conto ed a cui non si può resistere, «principio o esigenza spirituale, cioè Dio» 40, che rende l’uomo un essere morale.


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   Quello morale è un istinto di tipo mistico, inspiegabile e dannoso agli occhi della mera ragione ma irrefutabile per chi è in grado di avvertirlo, perciò si è pronti ad agire anche contro i propri interessi, dal momento che questi vengono completamente sovrastati dall’istinto morale stesso. Infatti «nessuna teoria morale può essere valida e […] tutto è da lasciarsi a quel tatto e istinto che è una dote, e in quanto tale, non può essere procurata o insegnata (Genio etico41. Inoltre, come non si può render conto del perché una cosa è ritenuta bella, così non si può render conto del perché compiamo una certa azione; «quell’azione è bella, questa è brutta. […] Faccio ciò che il mio istinto cieco mi dice di fare (bello). Come in estetica. Potrei sbagliare. Le forze ultime del cosmo lo sapranno» 42. La morale, dunque, diviene una facoltà estetica, dal momento che in essa si asseconda un istinto anziché seguire coerentemente (ed utilitaristicamente) la propria ragione.    Queste considerazioni rappresentano la summa del pensiero morale rensiano, in quanto ne racchiudono tutti gli aspetti: da buon irrazionalista scettico, infatti, Rensi non può che respingere ogni tentativo di universalizzazione della morale, dal momento che, come più volte detto, la ragione varia da individuo a individuo fino a giustificare contemporaneamente in due soggetti distinti idee diametralmente opposte tra loro. Perciò la morale è pazzia, non-ragione, inconoscibilità, dal momento che l’individuo agisce per via istintuale e la ragione, si sa, è sempre pronta a giustificare ogni impulso per legittimare l’attività di un soggetto preda dell’irrazionalità. Tutto ciò, agli occhi di Rensi, emerge dopo un’attenta ed accurata analisi del reale, ossia è una genuina conseguenza del realismo più puro: se i nostri concetti di bene e male, di vero e falso, di giusto e sbagliato, appunto perché nostri, sono parziali ed inadeguati a rendere conto della totalità del reale, allora in ogni caso, anche in quelli apparentemente più rigorosamente razionali, la morale agisce per istinto, agisce esteticamente. È la ragione umana che successivamente cade nell’errore di voler teorizzare e rendere oggettiva la condotta che l’istinto morale le impone.    In tal senso, e cioè in quanto istinto estetico ed irrazionale, la morale rensiana è un’esigenza esistenziale, in quanto l’istinto morale è irrefutabilmente avvertito come una innata virtù che ha necessariamente ed indiscutibilmente da compiersi prescindendo da ogni altra cosa. In più, lungi dal «coincidere con l’esistenza», la morale di Rensi è uno «strumento di liberazione dall’ex-sistentia, dato che l’umano trascende sempre l’umano» 43. Se le cose stanno così, la morale non può che essere un’esigenza esistenziale che racchiude in sé il paradosso e l’assurdità dell’essere umano; ossia essa è


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un’esigenza esistenziale che spinge l’uomo a trascendere sé stesso, a liberarsi del suo essere umano ed a scegliere il Nulla, ad abbandonare il divenire e scegliere la quiete della condizione divina. In tal senso vanno lette le parole conclusive del Testamento filosofico di Rensi: «Atomi e vuoto», che indicano la situazione esistenziale dell’uomo, che è assurda ed irrazionale, «e Il Divino in me» 44, che indica la presenza nell’uomo di quella forza metafisica, di quell’istinto irrazionale, di quella tendenza divina che è la sola fonte del Bene, e che pertanto è la sola a poter indicare all’uomo cosa sia Bene ed aprirgli le porte della salvezza.


3. La morale di Papini

   3.1. L’Uomo-Dio come demiurgo morale    La questione morale rappresenta un problema cruciale fin dall’età giovanile per Papini, il quale è convinto che la filosofia deve fungere da strumento di cambiamento, ossia deve essere essenzialmente e primariamente un qualcosa di pratico, una metateoria dell’azione. È perciò necessario «che agli uomini delle parole e agli uomini del fatto succeda colui che, simile a Dio, del verbo faccia cosa» 45, in modo da rendere reale ciò che per l’uomo è ideale, in quanto nell’ideale umano risiede un livello di perfezione ben più alto rispetto a quello della realtà. Sottolineando l’importanza dell’esercizio della volontà in vista del miglioramento della possibilità di agire sulle cose, Papini afferma la possibilità «che la volontà possa unire e disgiungere le cose nella realtà, come noi le uniamo e separiamo nella nostra mente» 46.
   Per tali motivi l’uomo tende ad essere come Dio, in modo cioè da poter adattare alle sue esigenze ed ai suoi desideri una realtà che lo delude, così che «il mondo sarà come un corpo più grande di cui l’uomo sarà l’anima e le cose gli obbediranno come ora obbediscono all’anima le membra» 47. Per Papini tale possibilità è tutt’altro che chimerica, dal momento che «questa potenza […] esiste già negli uomini e s’è manifestata in tempi vicini e lontani ed è possibile aumentarla e disciplinarla» 48. Per poter far ciò, tuttavia, è necessario rifiutare in toto la realtà isolandosi, meditando e sopprimendo ogni pulsione sensibile; infatti «la solitudine, il silenzio, la castità, il digiuno sono le preparazioni necessarie dei poteri straordinari», e per poter liberare


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questi ultimi «occorrono stati di esaltazione speciali di queste forze interne – gli stati di preghiera, di estasi, di trance, di rapimento, di comando in cui la fede crea la realtà, in cui l’amore ci fa unir colle cose, in cui la volontà concentrata e potente plasma direttamente l’universo» 49.
   Questi gli aspetti che caratterizzano l’Uomo-Dio, creatore del suo mondo secondo la propria volontà e tramite il proprio agire; perciò tale figura indica un vero e proprio demiurgo morale in grado di far sì che il mondo in cui vive venga modificato in base alla sua volontà. Chiaramente un ruolo di primo piano spetta alla sfera pratica, essendo questa il tramite imprescindibile attraverso cui si concretizzano la volontà ed i pensieri; dunque, la morale dell’Uomo-Dio è una morale del tutto autonoma, creata dall’Uomo-Dio per gli Uomini-Dei e che perciò pone l’Uomo-Dio stesso al vertice dell’universo. In altre parole, l’Uomo-Dio non ha alcun bisogno di una morale prestabilita in quanto è egli stesso il creatore della sua morale; il senso del suo essere non è fuori di esso, ma è in lui stesso in quanto è lui che dà senso al mondo perché crea il suo mondo.
   L’uomo, insomma, non ha bisogno di alcuna rivelazione né di alcun sistema morale trascendentale, poiché in lui vi è una scintilla divina in grado di innalzarlo al ruolo di demiurgo di un mondo che lo soddisfi e che sia conforme alla sua volontà ed ai suoi valori. Infatti per Papini la morale non dev’essere né prescrittiva né restrittiva, bensì essa serve «per svegliare delle anime, per eccitare delle forze, per suscitare sentimenti, per tonificare degli uomini» 50; è necessario, dunque, «fare qualcosa d’importante perché la nostra vita abbia un senso e qualche bellezza» 51, in contrapposizione ad ogni mediocrità mondana moderna. Serve, perciò, essere audaci e temerari, in quanto grandi imprese (come quella che si prefigge l’Uomo-Dio, e cioè di cambiare il mondo) necessitano di una forte dose di coraggio per essere compiute, abbandonando ogni gioco retorico e mettendo in primo piano la sfera pratica.
   In virtù di ciò «l’uomo forte deve cercare di trasformare ciò che l’attornia senza troppo preoccuparsi delle tendenze, delle correnti e di altre simili generalità», e cioè non «essere interprete bensì manipolatore 52 della realtà. «Bisogna divenire ciò che gli altri non sono e non sanno essere» 53, e per far ciò è necessaria una certa dose di pazzia, intesa come modo di pensare diverso da quello comune e teso verso obiettivi nuovi e diversi. Ciò per indicare il netto rifiuto del presente, il non riconoscersi nelle istituzioni politiche


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e culturali e, soprattutto, disprezzo della modernità. Il proposito di lavorare per il rinnovamento culturale dell’Italia e del mondo fa sì che Papini non possa che essere sempre orientato verso il futuro, verso la novità, rifiutando nel presente ogni convenzione tradizionale; tale rinnovamento, inoltre, non può che essere morale, in quanto esso, per essere effettivamente realizzabile, deve necessariamente passare attraverso un nuovo modo di agire, e cioè attraverso nuovi valori ed una nuova idea di morale.
   Questo atteggiamento è tipico, secondo Papini, della figura del genio, il quale «è, in senso assoluto, il redentore degli uomini, colui che li salva e l’illumina a prezzo di dolori e tormenti tutti suoi» 54; infatti «il genio crea più degli altri ma vede ancora più che non crei» 55, e ciò genera in lui un senso di angoscia e sconforto di fronte alla realtà. Tuttavia, prosegue Papini, in ogni uomo esiste la possibilità di diventare un genio, consistente proprio nella scintilla divina che rende l’uomo un demiurgo e nell’esercizio intellettuale e spirituale che innalza l’uomo ad un livello di coscienza superiore; inoltre non bisogna mai illudersi a riguardo, dal momento che «creder di essere [un genio] è il più grande ostacolo per diventar[lo] veramente», poiché «chi crede d’esser giunto non cammina» 56. Perciò è necessario muoversi in tale direzione e con la ferma e costante speranza che il genio soppianti l’uomo comune ed innalzi l’umanità verso una situazione divina.
   Anche in Un uomo finito Papini mostra una tendenza all’azione legata ad una forte esigenza di cambiamento; infatti, egli si chiede, «a che pro esser venuti sulla terra? A che fine aver rinnegato crudamente il passato? O rifar tutto e ricominciar tutto e sublimar tutto con uno sforzo colossale d’amore e di volontà sì da rendere abitabile la realtà anche ai più delicati e più grandi oppure rinunciare a ogni cosa» 57. Non esiste, cioè, alcuna via di mezzo: o si cambia o si rinuncia a tutto, o l’Uomo-Dio o l’uomo mediocre. Questo irrefrenabile desiderio d’azione e di cambiamento fa della morale una esigenza pressante ed incombente, che spinge l’uomo a volersi parificare con la divinità per poter «inaugurare una nuova era, un periodo assolutamente distinto, un terzo regno» 58.
   Papini continua a seguire questa falsariga anche nel suo periodo futurista, proponendo un costante rinnovamento morale ed intellettuale che rompa con la tradizione. Perciò «soltanto gli immoralisti posson commettere di tanto in tanto delle azioni virtuose – per provare, per capriccio, per desiderio del nuovo e del proibito» 59, ossia è soltanto contrapponendosi alle vecchie


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concezioni morali che si può apportare un reale cambiamento nel mondo. In più «se la morale consiste nel fare a tutti i costi il proprio dovere e il dovere consiste nel far bene quello a cui siamo più adatti anche l’immoralista, il quale non sa far di meglio che distruggere e compie la sua opera senza paura dell’odio, è un uomo morale» 60, e quindi in tal senso il rinnovamento si impone come un dovere morale per chi ne sente il bisogno.
   Per poter pensare un tale cambiamento è necessaria quella «gioia immanifestabile di concepire, di sapere, di realizzare, di veder chiaro» e quella «estasi suprema dell’INVENTARE e dello SCOPRIRE» 61; in altri termini, stimolando il proprio ingegno si rende il cambiamento pensabile, sfruttando tutte le energie del proprio spirito e della propria volontà lo si rende realizzabile. Tutto ciò, però, è possibile soltanto mettendo da parte ogni certezza e cercando una nuova affermazione di verità, la quale non si dia più passivamente all’umanità ma sia attivamente generata dagli spiriti più audaci e virtuosi. Infatti, come già detto, alla forza intellettuale deve accompagnarsi la forza di volontà per attuare il cambiamento, e cioè per rendere reale l’ideale.
   Per questo Papini torna sul tema del coraggio, ritenuto indispensabileper far sì che un qualsivoglia cambiamento avvenga; è necessario, infatti, il coraggio di cambiare, di abbandonare il vecchio in virtù del nuovo, di accettare l’onere che tale compito comporta, e così via. «Chi non ha coraggio non farà nulla di grande. Chi non ha coraggio non sarà mai veramente sé stesso. Chi non ha coraggio non potrà liberarsi dal passato, dagli altri, dagli esempi e dalle tradizioni» 62; avere coraggio, dunque, per Papini vuol dire uscire dagli schemi convenzionali ed apparire folle, proiettarsi verso l’avvenire per plasmare un nuovo avvenire, abbandonare la tranquillità quotidiana e sfidare la paura del cambiamento. Ossia il coraggio diviene un mezzo indispensabile per poter eliminare «le superstizioni invincibili», per superare «le vecchie forme filosofiche, letterarie, pittoriche, musicali», e per creare «una nuova atmosfera, un’arte nuova, una vita nuova» 63.
   Papini non avrebbe potuto scegliere una figura migliore di quella dell’Uomo-Dio come metafora ed emblema di queste sue concezioni; esso, infatti, nasce dalla tendenza e dal desiderio che ha l’uomo di trascendere sé stesso elevandosi alla posizione divina. Come già detto, è l’insoddisfazione del reale che spinge l’uomo a compiere tale passo, al fine di rendere la realtà più consona ai suoi bisogni ed ai suoi ideali; perciò l’Uomo-Dio non può che porsi come demiurgo del mondo nuovo e come creatore di un futuro che sia


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degno della sua grandezza e ad essa adeguato. Tuttavia per far ciò, oltre ad abbandonare il passato e le sue convenzioni, è necessario creare un nuovo modo di pensare ed un nuovo sistema di valori, ragion per cui è in ambito morale che bisogna primariamente agire; quindi l’Uomo-Dio è, prima di qualsiasi altra cosa, un demiurgo morale.

   3.2. La conversione e il ritorno alla morale rivelata.
   La conversione religiosa imprime nel pensiero di Papini una svolta anche e soprattutto dal punto di vista morale, in quanto comporta una netta e radicale inversione di tendenza a cui consegue il rinnegamento di tutte le idee precedenti. L’approdo al cattolicesimo di Papini è il punto di arrivo di una angosciosa ricerca esistenziale della verità, le cui tappe precedenti non ne placano l’ardore; l’Uomo-Dio si rivela un’illusione, una chimera, poiché inadatto ad apportare un rinnovamento ed una verità nuova. In altre parole, il fallimento dell’Uomo-Dio consiste nell’ennesimo effimero tentativo di ricerca del vero; ragion per cui, se la modernità è portatrice di valori falsi e mediocri e non vi è alcun Uomo-Dio in grado di creare da sé un nuovo tipo di verità, non resta che il ritorno alla rivelazione divina, purificata nella sua essenza morale da ogni tendenza razionalizzante tipicamente moderna.
   Non più il bisogno di un nuovo ordine etico, ma quello di risalire al principio della rivelazione divina guida la nuova attività morale di Papini; del resto per lui il compito dello scrittore è rimasto invariato, e cioè egli deve smuovere le coscienze, educare i lettori e fornir loro esempi da seguire. Di questi ultimi la tradizione cristiana è piena, perciò il credente non deve fare altro che rendersi simile ad essi, e cioè a Cristo ed ai santi: infatti «l’intento del Papini convertito è quello di far conoscere la figura di Cristo nella sua massima umanità, affinché il germe della conversione possa cadere, con maggiore possibilità d’attecchimento, nel lettore» 64. Le figure di Cristo e di alcuni santi (come Sant’Agostino e Sant’Ignazio) vengono da Papini presentate come estremamente affini all’uomo comune, in modo che questi possa sentirle più vicine ed agire conformemente al loro esempio.
   Per Papini la funzione primaria dell’insegnamento religioso è proprio quella morale, dal momento che l’uomo ha bisogno di una guida che gli indichi la strada per la felicità e la beatitudine. Il fallimento dell’Uomo-Dio, infatti, ha inesorabilmente messo in evidenza tale aspetto, e cioè che l’uomo, da solo, non è in grado di orientarsi nel mondo né di trovare un senso alla propria esistenza, ragion per cui necessita irrimediabilmente di un faro divino che illumini la sua via. Non per niente nella sua Storia di Cristo Papini


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afferma che noi «viviamo nell’èra cristiana. E non è finita. Per comprendere il nostro mondo, la nostra vita, noi stessi, bisogna rifarsi da lui [Cristo]» 65; Papini vuole cioè sottolineare la situazione ontologica umana, nella quale l’uomo, del tutto incapace di pervenire al vero, non ha che da rifarsi alla figura di Cristo.
   Vale la pena sottolineare ulteriormente questo brusco passaggio dall’Uomo-Dio all’uomo religioso, dal demiurgo morale al soldato della fede, in quanto rappresenta una presa di coscienza forte ed amara da parte di Papini riguardo al ruolo dell’uomo nel mondo: infatti quando tenta di cambiare la realtà e di mettervi al centro i suoi pensieri e valori, l’uomo si scopre radicalmente incapace di una simile impresa. Ossia, nel tentativo di sviluppare al massimo la sua forza spirituale e la sua volontà, l’uomo scopre la sua debolezza ed impotenza. Tuttavia è proprio in ciò che consiste la massima espressione della potenza umana, e cioè nel riconoscersi debole ed impotente di fronte alla creazione di Dio. Perciò, in virtù di questo ineliminabile paradosso che attanaglia l’essenza di ogni uomo, questi non può che riconoscere l’onnipotenza divina ed accettare di sottostare ad essa
.    Infatti, afferma Papini, «l’unica sua [dell’uomo] speranza di grandezza sta nel riconoscersi nulla e che non per giuoco Gesù ha detto: Chi s’umilia sarà esaltato» 66; l’uomo, d’altronde, non è che un essere ambiguo, nel senso che è capace allo stesso tempo di commettere i crimini peggiori e le gesta più nobili. «Nessun altro essere dell’universo racchiude in sé queste due possibilità estreme, queste due vocazioni contrarie, questi abissi di vergogna e questi vertici di splendore spirituale» 67; ciò denota, una volta di più, l’incertezza della natura umana e la fragilità dell’uomo, la cui unica speranza consiste nel seguire fedelmente l’esempio di Cristo. Quest’ultimo, infatti, è l’incarnazione di Dio e perciò nulla vi è di corrotto od impuro nella sua natura e nelle sue azioni, e quindi è solo seguendo il suo esempio che si perviene alla verità ed alla salvezza; non è più l’uomo che si fa Dio per salvare il mondo, ma è Dio che si è fatto uomo per redimere e salvare l’umanità.
   Riscontrati il suo fallimento e la sua incompletezza, l’uomo non può che amare Dio ed i suoi fratelli tutti; l’uomo che non ama è un uomo solo, tuttavia «l’uomo non può amare l’uomo in modo così perfetto se Dio non è intermediario» 68, ossia egli è in grado di amare solo se ama Dio, ne accetta la volontà e ne segue gli insegnamenti. Invece «la massima parte degli uomini sono irrimediabilmente sordi alle voci superiori, alle voci che meritano


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d’essere ascoltate» 69, perciò coloro i quali predicano e seguono la parola di Dio sono messi in cattiva luce; tuttavia, dice Papini, sono «favoriti da Dio coloro che non sono intesi e compresi dai più perché son compresi e intesi dai meno, cioè, quasi sempre, i migliori» 70. Perciò «felice più di ogni altra creatura è colui che sembra un mostro agli occhi dei belli, perché ispira il timore che l’affratella ai forti o suscita la pietà che l’avvicina ai santi» 71.
   La felicità umana, infatti, non consiste nella gloria terrena o nei beni materiali, poiché la vita materiale è effimera e destinata ad essere presto abbandonata; la vera ed autentica felicità per l’uomo sta nella beatitudine della contemplazione di Dio, ossia nel ricongiungimento della sua anima con la sostanza divina. Per cui tutti gli uomini che inseguono i piaceri terreni in cerca di autentica felicità ignorano che in tal modo se ne allontanano sempre più, in quanto ignorano anche che la vera essenza della felicità consiste in tutt’altro. L’uomo in quanto tale non può essere felice poiché esso è pascalianamente «due volte penultimo. Quasi ultimo nella scala discendente verso il Nulla; quasi ultimo in quella che sale verso Dio. Un quasi lo divide dalla cenere morta ed un quasi lo separa dalla luce eterna» 72; solo rinunciando al proprio sé e ricongiungendosi con il divino, ossia solo non essendo più uomo, questi può raggiungere la vera felicità.
   «L’uomo, dunque, a vivere si annoia e di morire si spaventa» 73: in altre parole, egli rincorre vanamente il piacere e la felicità nella sua vita terrena pur sapendo che per essere realmente felice deve annullarsi, non essere più, gettarsi nel mistero della morte. Tuttavia è proprio quest’ultima possibilità che lo spaventa ancor più del tedio della vita medesima, come a voler ulteriormente rimarcare quell’eterno paradosso che accompagna l’essere umano e che può essere superato soltanto nella morte, ossia nel non essere più. Aut pati aut mori: l’uomo è intrappolato in questa inesorabile morsa che solo la Grazia divina può allentare. Ciò, inoltre, rafforza ancora di più la necessità della fede e l’imprescindibilità dell’insegnamento morale di Cristo.
   Questo angoscioso dolore che fa parte dell’esistenza umana, tuttavia, ha un valore positivo, dal momento che «un dolore può essere prima di tutto stimolo all’azione, aiuto alla conoscenza, pagamento del peccato o della superiorità, principio della catarsi o, nel suo stadio più divino, materia prima della gioia» 74. Esso, inoltre, è uno stimolo ad interrogarsi sul senso delle cose: infatti «senza il sentimento di angoscia che ci invade dinanzi ai misteri del firmamento e dell’universo non esisterebbe né l’astronomia né la


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metafisica» 75. Infine esso è la via che porta alla gioia, in quanto la sofferenza terrena serve unicamente per mettere in evidenza la caducità della carne e la beatitudine dello spirito.
   In conclusione, è soltanto tramite un rinnovamento morale che l’uomo può salvarsi; tuttavia tale rinnovamento consiste non più nel guardare avanti e nel cercare nuovi valori e nuove verità, bensì nel riscoprire le verità antiche e nel conformarsi all’insegnamento di Cristo e dei santi tutti, in quanto guidati da Dio. Ciò consiste in un’impresa alla portata di tutti, ragion per cui Papini, per assolvere alla sua funzione di educatore morale e spirituale, tenta di mettere in luce gli aspetti più umani di figure divine quali Cristo e Sant’Agostino. Perciò anche in tal senso è possibile parlare di morale come esigenza esistenziale, dal momento che il suo ruolo risulta di fondamentale importanza in entrambe le fasi morali del pensiero papiniano: nella prima essa è un’esigenza di rinnovamento e di scoperta di nuovi valori; nella seconda, invece, essa è un’esigenza di salvezza spirituale.


4. Conclusioni

   4.1. Fonti dei pensieri di Rensi e Papini.
   È opportuno, in chiusura, ricordare brevemente le fonti da cui traggono ispirazione Rensi e Papini. Nel primo caso, tra i tanti nomi che potrebbero esser citati, spiccano quelli di Giacomo Leopardi e Blaise Pascal, i quali risultano determinanti nello sviluppo della filosofia rensiana 76. Di Leopardi, infatti, Rensi condivide l’antirazionalismo, secondo cui il mondo esiste in maniera del tutto indipendente dalla ragione umana ed è perciò non conforme ad essa, ed il conseguente pessimismo ontologico, scaturente dal fatto che l’uomo cerca la felicità nella falsificazione della realtà anziché nella sua accettazione. Da Pascal, invece, Rensi riprende l’idea che l’uomo sia incapace di conoscere tanto il Vero quanto il Bene, e perciò è necessario l’intervento della Grazia divina per distoglierlo dal male e dalla concupiscenza.
   Per quanto riguarda Papini, senza dubbio le figure che più influenzano il suo pensiero sono quelle di William James e Sant’Agostino. Dal primo Papini estrapola quegli elementi che contraddistinguono il suo pragmatismo, ossia il fatto che la volontà debba essere utilizzata come principale strumento teso ad accrescere il potere dell’uomo sulle cose del mondo, in quanto essa non fa che dare il via all’azione, stimolando e provocando un cambiamento della


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realtà ad opera dell’agente 77. La figura di Sant’Agostino, invece, è considerata da Papini come il massimo esempio di virtù che ogni uomo dovrebbe seguire, poiché dimostra inequivocabilmente come anche il più misero degli uomini possa raggiungere la santità e rendersi degno della beatitudine eterna, in virtù dell’universalità della Grazia e della Bontà divine 78.

   4.2. La morale come esigenza esistenziale.
   In che senso, dunque, si può parlare di morale come esigenza esistenziale nei pensieri di Rensi e Papini? Entrambi i filosofi considerano la morale come derivante dal sentimento e non dalla ragione: in tal modo non è la ragione, in quanto morale, che sovrasta il sentimento, bensì è il sentimento, in quanto morale, che sovrasta la ragione. Quindi la morale è da considerarsi come un’esigenza esistenziale dal momento che essa è un istinto primordiale ed irresistibile che scaturisce dal profondo e che impone all’uomo virtuoso di venir seguito anche a discapito della ragione (ossia di ciò che pare razionalmente preferibile). Pertanto sia Rensi sia Papini sfruttano il concetto di pazzia (inteso come sinonimo di genio, ispirazione, intuizione, difformità rispetto alla ragione ed al senso comune, unicità, dinamicità, rifiuto di ogni convenzione) per formulare le rispettive teorie morali, in quanto per tutti e due la morale è essenzialmente in contrapposizione con la razionalità e l’utilitarismo propri dell’egoismo del senso comune. Perciò assecondare l’istinto morale è pazzia pura, dal momento che si agisce contravvenendo a quanto la ragione suggerisce; tuttavia non c’è altro modo per essere virtuosi e felici.
   Da ciò emerge l’importanza che entrambi i pensatori conferiscono alla sfera attiva e pratica dell’esistenza: infatti Rensi è profondamente convinto del fatto che «la filosofia […] si deve nutrire del legame naturale e immediato con la vita, anzi quasi dell’identificazione con essa» 79, ed infatti «l’ambizione di Rensi – e contemporaneamente la sua proposta filosofica positiva – è proprio quella di sviluppare un pensiero che rimanga pur sempre legato al vissuto, ma non più nel tentativo di ricomporne i frammenti, secondo le classiche prevaricazioni sistematiche, bensì nell’atto di accettarne e riprodurne l’instabile morfologia» 80. Anche Papini, come già visto, crede fermamente che la sfera pratica sia preponderante rispetto alla speculazione teorica in ambito filosofico e morale.
   In altre parole, sia Rensi sia Papini sostengono che la filosofia non possa prescindere dal suo immediato rapporto con la vita reale e con le dinamiche


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dell’umana esistenza, dal momento che l’attività speculativa è sempre preceduta da quella pratica, essendo quest’ultima più vicina alle dinamiche esistenziali. Ossia: la filosofia è vita prima di essere pensiero. Di conseguenza la morale non può che considerarsi come la primaria e fondamentale esigenza esistenziale dell’uomo, in quanto è alla base della sfera pratica, che a sua volta riveste un ruolo di primaria importanza nell’esistenza umana stessa.


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